domenica 9 giugno 2013

fotoracconto n.2 (un altro esperimento)



Come in quel racconto di Carver, che forse era una poesia in forma di racconto o un racconto in forma di poesia, insomma, uno di quelli, dove c’è lui che rimane chiuso fuori di casa e, tipo dal balcone o qualcosa del genere, guarda dentro, attraverso la finestra.
e quel che vede è la sedia e la scrivania e la macchina da scrivere, sopra. il suo disordine e l’ordine e le cose, gli oggetti e, forse, un posacenere.
o una bottiglia d’acqua, può darsi.
cose minuscole, come minuscola, in un certo senso, era la sua scrittura.
cose così.
e lei capiva, leggendolo, che della scrittura proprio, stava parlando, il vecchio Raymond.
di come scrivere sia rimanere chiusi fuori casa e, da fuori, potersi guardare.
lo capì in quel momento, guardando dalla finestra interna, che dava sul corridoio, il suo ufficio, chiuso, con le chiavi dentro e lei fuori.
il thermos di caffè sul tavolo, le sedie in fila, i libri impilati.
e quella sedia, lasciata vuota e scomposta, in mezzo alla stanza, girata dalla parte sbagliata.
come quando si riceve una notizia improvvisa e si esce di casa con un pentolino sul fuoco, le luci accese, le finestre aperte, per l’urgenza di un fatto che ci ha raggiunti impreparati.
e quel foglio, per terra, impertinente, a ricordarle le cose perdute a ogni angolo della sua vita.
ma, più di tutto, quello che la colpì fu la luce.
entrava dall’altra finestra,quella che dava sul cortile, sull’esterno.
ed era una luce decisamente sfacciata.
incurante dei suoi disordini e delle sue dimenticanze.
dell’allineamento maniacale delle cose.
incurante, perfino, della sua assenza di quel momento.
la luce inondava, sfacciata, tutta la stanza, occupando lo spazio lasciato irrimediabilmente disabitato da lei; scivolando sulla superficie liscia delle cose e dei mobili; irrompendo con forza dai vetri lasciati liberi dalla tenda che lei stessa, poche settimane prima, aveva deciso di arrotolare e legare in modo che non facesse impedimento.
quella luce, in un certo senso - pensò - la stava aspettando da tempo.
paziente, si era intrufolata ogni giorno per giorni, in quella stanza.
qualche volta le aveva scaldato la schiena, altre, semplicemente, l’aveva accompagnata silenziosa, senza mai ricevere un grazie e nemmeno un occhiata veloce di riconoscimento, nè un segno anche minimo di considerazione.
rimase a guardare qualche istante il pavimento lucido e il foglio a terra, nemmeno ricordava cosa fosse, o se fosse importante.
pensò che quella stanza le somigliava.
non per il disordine, e nemmeno per essere vuota, senza di lei, e irrimediabilmente chiusa. tutte cose che, per altro, si sentiva corrisponderle perfettamente, da molti mesi, ormai.
non era quello, che colse come segno di riconoscimento di sé.
ciò che più sentì esserle specchio era quella luce: immeritata e non richiesta. paziente e, soprattutto, estranea: veniva da fuori, gratis, non era niente che lei avesse predisposto.
eppure le scaldava il cuore - pensò - più di ogni altra cosa quella stanza contenesse.
quando si girò, per scendere alla ricerca di un passe-partout, raddrizzò impercettibilmente la schiena e sentì rischiarasi la fronte.
finchè c’è una luce che mi aspetta sfacciata - si disse, tra i pensieri - nessuna assenza potrà mai essere irrimediabile

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