sabato 29 settembre 2012

bibenda

Mi chiedono che sapore ha il caffè, qui.

Dunque.
Il caffè che bevono i colombiani solitamente fa abbastanza schifo.
Lo chiamano tinto e il nome è appropriato, dato che praticamente si tratta di una brodaglia acquosa leggermente colorata. Di fatto è quello che noi definiremmo "caffè americano" e infatti. (vedi post su "america", "americani" etc...).

Il caffè espresso lo trovi. E quando lo trovi è buono. Buono buono buono.
Sa di caffè, ma nel senso più pregnante del termine. E' un sapore di caffè forte, sembra quasi polveroso, non so se si capisce.
Buono davvero.
Noi a casa abbiamo la moka e la mattina facciamo il caffè con quella, la varietà che compriamo è buona.
(Io poi ho Salvatore etc etc).

In alcuni posti hanno anche il cappuccino.
Ma scordatevi i cappuccini di Milano, qui non esistono.

Poi bevono anche una cosa bleah che si chiama agua qualcosa, ora non mi ricordo il nome.

E poi un sacco di succhi di frutta molto buoni, tipo il succo di Lulo, che è leggermente aspro ma buonissimo.

Cos'altro?
ah, il gelato da queste parti è immangiabile.
Giuro.



Big fish a Bogotà!!!

La verità é che mi hanno spiegato che le scarpe da queste parti le appendono ai fili quando qualcuno muore in una rissa. Per cui vabbè. Comunque é incredibile lo stesso.

I love coffee

venerdì 28 settembre 2012

Meglio che Dante non lo sappia

Ieri un mio alunno di terza liceo, in cui stiamo leggendo il purgatorio, mi ha chiesto com'é che alle anime, arrivate al paradiso terrestre, gli venga voglia di andare in Paradiso.
"Non gli basta il paradiso terrestre?" Chiedeva, con il tono di voce di chi sta dicendo una cosa così scontata, prevedibile e banale...

Ho provato a rispondere e fatto almeno 5 esempi. Mi guardava come fossi scesa direttamente da un altro pianeta.
Sinceramente, proprio non riusciva a capire. "Io mi sarei accontentato", continuava a ripetere.

Io avrei solo voluto prendere un po' dell'infinitá del mio desiderio e rovesciarglielo nel cuore.
Ma non si può.

Ho potuto solo cominciare a desiderare ancor di più, anche per lui.

Meet me, please

giovedì 27 settembre 2012

saludos amigos

I colombiani salutano con un bacio.
Uno di quei baci che non sono veri baci: si accosta la faccia a un'altra faccia e, in realtà, si bacia l'aria.
Non ho ancora capito se bisogna dirigersi a destra o a sinistra rispetto alla faccia del salutatore, infatti ogni tanto si crea quella situazione imbarazzantissima di destra-sinistra-destra- risolino imbarazzato e, alla fine, bacio (all'aria).

Vabbè.

Il punto non è questo.
Il punto è che tutti salutano tutti, sempre, così. Sia all'arrivo che alla partenza da qualche posto.

Non so, ad esempio: metti che si va fuori a mangiare una pizza, si è in cinque, sei.
Si arriva: ciao, ciao, todobien? eccetera.
(e ciascuno bacia tutti gli altri).

Si mangia la pizza e via dicendo poi viene l'ora di andare a casa.
Ciao, ciao, hasta manana...eccetera.
(e ciascuno deve baciare tutti gli altri, di nuovo).

Praticamente è obbligatorio, se non lo fai sei una brutta persona, sei maledettamente scortese oppure vuol dire che ce l'hai su con qualcuno.
Non so se vi rendete conto di quanto possa essere leggermente snervante la cosa.
Almeno per me, eh, intendiamoci.
Se poi fate il conto che ci sono delle volte in cui si è un po' di più di cinque o sei...
(conosco gente che ammazzerebbe per molto meno)
(E comunque il numero di baci totali-all'aria- che ne risulta é decisamente imbarazzante, dai)

Io, che per ora resisto, sorrido e ubbidisco... credo che potrebbe andare a finire che qui non avrò amici.
O quasi.

(E comunque l'aria colombiana si deve sentire molto molto amata, dico io)


William, o dell'autocoscienza.

La terza media é, oggettivamente, la classe in cui sto facendo più fatica.

Più che altro perché non sono più molto abituata ad avere a che fare coi ragazzini di quell'età lí, con i ragazzi del liceo mi trovo più a mio agio.

Eppure, proprio in terza media stanno accadendo gli episodi e i fatti che più mi colpiscono e mi provocano.

William é un mio alunno di questa classe. É un ragazzino intelligentissimo e contemporaneamente un rompipalle (si può scrivere su un blog? Vabbè, ormai l'ho fatto) di proporzioni clamorose. Uno di quelli che ogni tanto verrebbe voglia di legare alla sedia e imbavagliare. Le prime settimane mi ha dato del filo da torcere, insomma. Tra le altre cose ho scoperto che non ha più il papà, che é stato ucciso da un colpo d'arma da fuoco, in un centro commerciale, quando William aveva 8 anni o giù di lí.

Comunque. In classe leggiamo questa poesia, di un autore crepuscolare italiano, che si intitola "chi sono?"
Durante la lezione lui fa un casino che metà ne basta.
Si becca (insieme al suo fedele compagno di banco, Felipe) un tema aggiuntivo di castigo.
Il classicissimo "racconta un episodio che ti ha colpito in queste prime settimane di scuola" (di solito sono più originale, giuro, ma questo l'ho dovuto inventare lí sui due piedi).

Il giorno dopo William arriva col tema.
Tra tutte le lezioni che poteva scegliere, il delinquente ha scelto esattamente quella (di cui apparentemente non aveva ascoltato una sillaba) che gli aveva procurato il compito aggiuntivo.

Nel tema scrive più o meno così (riassumendo):
La domanda "chi sono" io me la faccio quasi in continuazione. Guardandomi attorno mi sembra di capire che forse é una domanda a cui non é possibile dare una risposta definitiva, perché anche le persone grandi che conosco non mi sembra abbiano sempre la risposta. Però mi sembra la domanda più importante di tutta la vita. A volte mi accorgo che la tentazione più grande che ho é chiedermi chi vorrei essere. Ma quando faccio così smetto di chiedermi chi sono. E mi accorgo che divento più triste, perché quello che vorrei essere non coincide quasi per niente con quello che sono, anzi. A volte é l'opposto. Chiedermi "chi sono?" per me é inevitabile ma é anche difficile. A volte cercando di rispondere scopro delle cose che non mi piacciono, altre volte mi viene paura. Poi ci sono delle volte che vorrei che qualcuno mi guardasse e rispondesse al posto mio. Se é qualcuno che mi vuol bene sono quasi sicuro che la sua risposta é più giusta di quelle che mi posso dare io".

Più o meno, eh. Questo era il livello.
12 anni e mezzo, signori.

Come si tiene viva una domanda così e una posizione così, per sempre? mi sono chiesta.

Ho riletto il tema 5 o 6 volte.
É una di quelle cose che non potrò dimenticare.
E William é uno di quegli studenti che non potrò non amare.
Più che posso.



Playing

mercoledì 26 settembre 2012

Alcune precisazioni

Dato che un po' di gente me lo sta chiedendo, chiarisco alcune cose riguardo al mio lavoro qui.
Ordunque.

Io insegno in un collegio che si chiama A.Volta.
É un collegio italo-colombiano, privato.
La scuola offre: prescolare (che é la nostra scuola materna), elementari, medie, liceo scientifico.
Quindi l'istituto nel complesso é molto grande.
Di fatto, gli alunni del collegio fanno due scuole in una: da una parte fanno il percorso scolastico colombiano (storia, lingua, letteratura spagnole etc), e in più quello italiano (storia, lingua, letteratura italiane etc...). É anche per questo che fanno 7 ore di lezione al giorno...

Chiederete: e perché i colombiani dovrebbero sottoporsi a una tale tortura?
La faccenda sta in questi termini: il sistema scolastico colombiano statale é terrificante. Ma terrificante proprio. Cioè, nemmeno lo potete confrontare con la scuola italiana peggiore che potreste avere in mente.
Quindi, appena possono (economicamente parlando), i colombiani che appena appena riescono, mandano i figli in una scuola privata, che almeno imparano a leggere e a scrivere, per dire.
In particolare le scuole bilingue sono decisamente ambite, perché nella testa dei colombiani sono un'opportunitá di fare l'università all'estero e, quindi, poi, di trovare un buon impiego e quindi, poi, di diventare ricchi, diciamo.

Ecco spiegato perché un colombiano si iscrive a un collegio bilingue italiano.

Detto questo, un collegio bilingue, é, appunto, bilingue.
Io le mie materie le insegno in italiano e i programmi che svolgo sono identici a quelli richiesti dal ministero per una scuola italiana. Leggo Dante, al liceo, ad esempio.
Ovviamente ci sono alcune differenze, ad esempio di liceo qui fanno 4 anni, non cinque.

Comunque.
Io ho una cattedra di 19 ore, così distribuite:
5 ore di italiano in terza liceo (che corrisponde alla nostra 4)
5 ore di italiano in seconda liceo (che corrisponde alla nostra 3)
1 ora di storia dell'arte in terza liceo e 1 ora di storia dell'arte in seconda liceo.
4 ore di italiano, più due di storia, più una di geografia, in terza media.


Tutte le ore che faccio le faccio in italiano. E anche i ragazzi parlano ( più o meno bene) e scrivono (più male che bene) in italiano. É uno degli obiettivi del percorso, che sappiano bene l'italiano alla fine del 

liceo, anche se ovviamente per loro resta la seconda lingua. Nonostante questo ce ne sono alcuni che ortograficamente , ad esempio, sono più corretti di...non so, per dire...no, va bene, occhei...non faccio nomi..., ciascuno dei miei ex alunni italiani si faccia per benino l'esame di coscienza ortografico, che é meglio.

Domande?

É qui che si riparano le nuvole

piccolo manuale di lessicologia sudamericana (parte seconda)

lezione 2.

Oggi in classe, seconda liceo, lezione sull'arte paleocristiana.
Basiliche, Mausolei, blablabla...e...battistero.

Spiego, non do nulla per scontato, inizio a raccontare come si battezzava anticamente, con l'immersione completa nella vasca e quindi il battistero era un luogo così grande perchè ci doveva stare la vasca e via dicendo blablabla....

A un certo punto mi accorgo che mi guardano strani.
Chiedo cosa non si capisce.

Mi rispondono che il problema è con la parola cristiani.
E che anche oggi i cristiani si battezzano così.
Non capisco, chiedo: ma qui i bambini li tuffano in una vasca per battezzarli?
Mi spiegano che i cristiani, il battesimo, lo prendono da adulti...
Io continuo a non capire o per lo meno a rimanere piuttosto perplessa.

Poi mi si accende una lampadina.
Chiedo, trovo conferma.

Il punto è questo: in Colombia è pieno zeppo di cristiani, sì.
Il punto è che per la maggior parte non sono cattolici ma protestanti.
E i protestanti, sì, la maggior parte, il battesimo qui lo ricevono da adulti.

Ancora una volta mi sorprendo di quanto poco valore o attenzione, spesso, diamo alle parole.
Io uso la parola cristiani come sinonimo di cattolici da così tanti anni e in maniera così sconsiderata che dovevo finire in Colombia per ricordarmi che c'è differenza.
E non una differenza trascurabile.

lunedì 24 settembre 2012

Se sta per piovere

piccolo manuale di lessicologia sudamericana

lezione 1
Qui la parola "americani" non ha senso.
Perchè noi con quella parola intendiamo, in realtà, di solito, gli statunitensi.
Mentre ovviamente, qui, loro, se dici "americani" pensano che stai parlando anche di loro.

Quindi.

Infatti tutte le volte che io (che ancora non mi sono abituata) dico "americani" o "America", intendendo, in realtà, rispettivamente, gli statunitensi barra gli USA, loro (cioè i colombiani), si offendono (un pochino) e, ovviamente, mi correggono.

Son cose a cui non pensi, fin quando non ti capita.
A come le parole abbiano un significato preciso preciso proprio.
Non è giusto usarle a casaccio.

Vi presento Salvatore, il mio nuovo nuovo amico

Salvatore (my personal salvation)

Voi forse non potete capire, ma io stamattina ho un pezzo di paradiso in cartella.

Ché io sabato ho comprato un thermos.
E io quindi stamattina ci ho messo dentro il caffè buonissimo fatto a casa.
E me lo porto a scuola, per sopravvivere alle ore che mi aspettano.

Perché il problema é che a scuola le macchinette del caffè non esistono (e vabbè, dice) e c'é la caffetteria (tanto meglio, dice), il problema é che in caffetteria hanno solo il tinto, che non é caffè, é come quella brodaglia americana che si vede nei film. E non é che si può uscire da scuola per bere il caffè; no, non si può.

Quindi.
Quindi voi capirete.
Io e la mia dipendenza incurabile da caffeina.

Per tal motivo sono lieta di annunciare al mondo che da oggi sono salva: ho un nuovo amico. Si chiama Salvatore ed é il mio nuovo nuovo thermos. É bianco, piccolino e contiene oro puro sotto forma di caffè.

Dopo faccio una foto e ve lo presento per bene, che il ragazzo se lo merita, é un po' timido, poi é nuovo, quindi siate gentili, con lui, per favore.

domenica 23 settembre 2012

rumbeando

Non so se il video qui sopra  funziona...che non ho ancora ben capito come si fa a caricarli su sto coso.
e poi se si vede, sappiatelo, il video è di pessimissima qualità, buio pesto, lo so, non avevo mezzi adeguati, ho cercato di fare quel che potevo col mio melafonino.
Il fatto è che ieri sera siamo andate alla festa di Andrea, che è una colombiana (donna) che ora parte e va in Spagna a fare il dottorato e io non la conoscevo, è amica di una amica di un'amica. ma insomma, siamo andate alla sua festa.
Le feste funzionano nel seguente modo: si mangiano patatine fritte e salsiccia, si beve mojito e birra (e i colombiani bevono tantissimo) e, soprattutto, si balla.

tutta.
la.
notte.

salsa e merenghe.

tutta.
la.
notte.

roba da tornare a casa senza le gambe.

Comunque.
I colombiani ballano la salsa da quando sono alti meno di una sedia. Per cui sono tutti bravissimi. Il video che ho cercato di fare riprende Alba e Freddy che ballano la salsa e sono super bravissimi.
E mi hanno detto che ho talento, posso diventare brava (al più presto mi iscrivo a un corso).

Quando vai in taxi o accendi la radio l'unica musica che si ascolta (praticamente) è di questo tipo qui.
Salsa e merenghe. 24 ore al giorno. Un po' monotona, eh. Però un sacco divertente, davvero.

sabato 22 settembre 2012

Alice in wonderland

Mowgli: storia di un cuore

Ieri ho conosciuto un indigeno.
Un indigeno vero.
Chè qui, nella parte a sud della Colombia, inizia la foresta amazzonica. E nella foresta amazzonica ci sono alcune regioni in cui vivono ancora delle comunità di indigeni.
Proprio come quelli che avete in mente, sì, la foresta, Mowgli, Pochaontas e compagnia bella.
Tutto piuttosto simile alla realtà.

Questo ragazzo è giovanissimo, ha meno di 20 anni.
E' arrivato a Bogotà da pochissimo.

Fino ai sei anni è vissuto nella foresta, con i suoi nonni e sua madre, che è indigena.
Poi a sei anni l'hanno portato in una specie di collegio dove ha imparato lo spagnolo e a leggere e a scrivere eccetera.
Poi ora, pochi mesi fa, ha deciso di trasferirsi a Bogotà, per fare l'Università, chè lui voleva studiare zoologia, ma poi si è accorto che non era come pensava, perchè lui aveva in mente una certa idea di natura, foresta eccetera (in pratica quella in cui era cresciuto) e invece di fatto, ovviamente, si è trovato a studiare come mungere le mucche eccetera. Quindi ora ha deciso di cambiare e così via.

Comunque. Raccontava della vita indigena, nella foresta. Raccontava che se fosse rimasto al suo villaggio a 15 anni si sarebbe dovuto sposare, chè le ragazze a 13 anni, dopo la prima mestruazione, si sposano. E i maschi non oltre i 15 anni. E c'è una prova di pesca e caccia, da superare, per poter essere ritenuti pronti a sposarsi e via dicendo. Oppure raccontava che le donne (bambine) che non possono aver figli vengono cacciate via dal villaggio e devono vivere da sole nella selva. Oppure altre cose così, insomma.

Io l'ho ascoltato a bocca aperta parlare di sè per minuti interi.

E ovviamente in me nascevano curiosità, indignazione, sconcerto, meraviglia, sorpresa, incredulità e potrei fare un elenco sterminato dei sentimenti che mi hanno attraversato mentre lui raccontava della sua storia.
O quando ci ha fatto sentire la sua lingua originaria che è bellissima, sembra quasi che canti, quando parli.
E così.

Ma.
Il fatto che più mi ha lasciata secca è stato quando ha raccontato di come ha conosciuto Alessandro, il mio collega italiano che insegna filosofia nella mia scuola e fa anche il dottorato nella stessa Università di questo ragazzo di cui vi racconto.
Che si sono conosciuti in Università e Alessandro l'ha invitato a un incontro con altri suoi amici universitari.
E da quel momento lui non li ha più mollati.
E quando io gli ho chiesto perchè, lui ha risposto: perchè loro mi trattavano in un modo che io non avevo mai visto. Mi volevano bene senza pretendere niente da me. Nemmeno che la pensassi come loro o che facessi quello che facevano loro.
Allora per la prima volta ho pensato che forse cominciavo a intravedere degli indizi della risposta che ancora non ho trovato ma che sto cercando da sempre.

Ora.
Magari a voi non fa nessun effetto, non lo so.
Ma a me vedere così chiaramente messo a nudo il nocciolo più irriducibile e segreto del cuore umano...
Vederlo così nettamente e inequivocabilmente coincidere col mio...
Accorgermi di questo, nonostante lo spazio, il tempo, la cultura, la storia separino mondi da altri mondi in modo così profondo e innegabile...

Oh, non lo so.
A me mi ha letteralmente fatto venire a galla il cuore.
Nudo e crudo.
E pronto a tutto.

Irene de la Tour

Ieri tutto il nostro barrio (quartiere) é rimasto senza energia elettrica. Per ore.

E contemporaneamente a scuola, ad esempio, non c'era acqua corrente.

Questo per dire che: malgrado tutto, il dato di fatto, é che qui siamo nel terzo mondo. Meglio ricordarselo.

Questa é Irene a lume di candela.

venerdì 21 settembre 2012

Stasera siamo usciti a mangiare la pizza.

Vabbè. Non era male, alla fine.

Il problema é che da queste parti mettono la carne dappertutto. C'erano almeno una ventina di pizze con la carne sopra.
Io ho optato per la quattro formaggi, che era buona, alla fine.

Credo mi verrà la gotta, é una possibilità.

E comunque io la pizza con l'ananas sopra, quella, io mi rifiuto.

CATEGORICAMENTE.
E non se ne parli più.

Chiaroscuro (di questo cielo é impossibile stancarsi)

Lassú

giovedì 20 settembre 2012

de agenda (scolastica e non solo) quotidiana (parte seconda)

I ritmi della vita qui sono tanto tanto tanto diversi a quelli a cui sono abituata.

Ora comincio a prendere il ritmo, ma non troppo.
Sto ancora facendo molta fatica.

Funziona così:
- alle 5.30 suona la sveglia (argh)
- entro le 6.15 dobbiamo uscire di casa, perchè alle 6. 20 passa, all'angolo, la ruta dei professori (un pulmino che ci porta a scuola, siamo tutti schiacciati come sardine, ma almeno non abbiamo il problema di cercare un taxi tutte le mattine eccetera)
- alle sette meno un quarto bisogna essere a scuola e in servizio: arrivano le rute dei ragazzi, ogni professore è assegnato a una ruta, bisogna contarli quando scendono dalla ruta, firmare un foglio, portarli in cortile, dal quale, poi, quando suona la campanella, si sale nelle classi, ciascuno col professore della prima ora.
- a questo punto inizia la giornata scolastica che, per i ragazzi, come già precedentemente raccontato qui, finisce alle tre e mezza.
- per i professori dipende: il martedì e il venerdì si deve rimanere a scuola fino alle cinque del pomeriggio. A volte ci sono delle riunioni, a volte ci sono delle Assemblee coi genitori (che si possono protrarre anche fino alle sette- sette e mezza di sera) e, comunque, quasi mai è dato sapere con anticipo cosa si farà quel pomeriggio. L'idea è che tu il martedì pomeriggio (o il venerdì) vai dalla coordinatrice e chiedi: ma oggi c'è qualche riunione? Lei a volte ti risponde di sì, a volte di no, e, anche quando ti risponde di sì, non sempre è in grado di dirti con chi e di che cosa si parlerà. Insomma, su questo aspetto diciamo che l'organizzazione non è il massimo.
- comunque: alle tre e mezza, o alle cinque o alle sette e mezza di sera, in qualche modo, la giornata a scuola finisce e si torna a casa.
- a tornare ci si mette...bhè...dipende dal traffico. Diciamo da un minimo di mezz'ora in taxi a un massimo di un'ora e mezza, dipende dall'orario.
- a questo punto sei a casa. Quando è presto magari sono anche circa le quattro e mezzo del pomeriggio. Che sembra presto, sì, ma non lo è.
- perchè.
-eh, perchè sei già stravolta-cotta-distrutta (vi ricordo che la sveglia era suonata alle cinque e mezzo del mattino...dunque comunque son già quasi 12 ore che sei in piedi)
- studi un po', fai la spesa, cucini e si fanno le otto e mezza- nove.
- mangi. lavi i piatti, studi ancora un pochino (fin quando ti reggono gli occhi)
- a questo punto vai a letto.
- dieci e mezza massimo.
- chè se no la mattina dopo sei uno zombie (e non citiamo l'insonnia, che è meglio)

Quindi.
No, è solo che io un po' di fatica anche da questo punto di vista la sto facendo.
La cosa che sto scoprendo è che davvero la fatica può essere una grande risorsa.
Costringe davvero (davvero), se la prendi sul serio, a chiedersi perchè, per chi vale la pena fare la fatica.
Questo mi aiuta. Non mi fa dare per scontato (quasi) niente.

Anche qui (quasi come Abigaille)

mercoledì 19 settembre 2012

Qui a fianco

Traffic

Io pensavo di sapere cos'é il traffico.
Se vivi a Milano pensi di saperlo anche fin troppo bene, cos'é il traffico.

Te ne fai un'idea piuttosto precisa. Dai una definizione mentale, alleghi immagini ed esperienze di vita vissuta.
Insomma, quando dici la parola traffico sei convinto di sapere di cosa stai parlando.

Questo, prima.

Prima di vivere in una città come Bogotá.

In una città come Bogotá l'idea di traffico è un altra cosa.
Ieri sera, ore 19. 30 locali, siamo uscite da scuola e patrizia ci ha portato a casa in macchina.
Ci abbiamo messo un'ora e mezza.
E sono circa 10 chilometri (poco meno, a essere precisi), ho controllato su google maps.
(e non c'erano incidenti, né deviazioni, né lavori in corso, né altro. Era puro e semplice normale traffico quotidiano...)

A questo, per favore, se aggiungete che qui ci sono pico y plata (alias le targhe alterne) tutti i giorni, di tutta la settimana, per tutto l'anno, escluso il week end...bhè, potete farvi una mezza idea.

La speranza é un colore

martedì 18 settembre 2012

The changeling (necesse est)

Ho un problema.

Sí, vabbè, ne ho molti, occhei.
Ma credo, stavolta, di averne uno davvero davvero impegnativo.

La premessa é la seguente: i colombiani, diciamo, non sopportano le grida. Cioè. Se tu ti arrabbi, per esempio, e urli. Se ti innervosisci, diciamo, e alzi un po' il tono della voce. Se ti alteri, anche, e conseguentemente...assumi un tono...come posso dire...deciso (?)....
Ecco, tutto questo, per un colombiano (adulto o meno che sia) é praticamente come ricevere una coltellata.
O un pugno (molto violento) nello stomaco.
O anche un affronto indegno, un'offesa gravissima, un'onta indicibile.

Il concetto é che volendo li puoi anche insultare profondamente, ma lo devi fare con grande...attenzione, con un sorriso immenso e molto molto tatto.
Ad esempio il sarcasmo qui va alla grandissima.
Ma il confronto diretto no.
Mai.
In nessun caso.
Non si fa.
Non é consigliabile.

Ieri ho detto (senza nemmeno urlare, giuro, solo con un tono un po' deciso) a un ragazzo di terza media, che se oggi non avesse portato a scuola il libro gli avrei messo una nota.
Non vi descriverò il conseguente diluvio di mail e telefonate da parte della famiglia in cui rimproveravano i miei metodi educativi da terrorista, anche perchè tale diluvio é ancora in corso e stiamo cercando (per fortuna la mia preside e la mia coordinatrice delle medie sono molto comprensive e soprattutto sono italiane) di rimediare alla catastrofe imminente.

Era per dire: chi di voi (25 eccetera eccetera) mi conosca solo un pochino saprà perfettamente ponderare il problema che questo rappresenta per la mia persona e il drastico cambiamento che mi attende nei prossimi mesi.

Non escludo di tornare tra due anni con un aspetto totalmente irriconoscibile.
O almeno con una personalità multipla.

Sempre che non mi arrestino prima.

Bogotá skyline

domenica 16 settembre 2012

La sera, arriva presto, qui, la sera (e dura pochissimo)

i-pensiero parte seconda (le perle di saggezza, eggià)

E' quasi un mese, che son qui.
Che son partita il 18 di Agosto.
E domani é il 18 di Settembre.

E non so dire se mi sembra tantissimo o appena ieri.

Penso che questo sia un buonissimo segno: quando si vive intensamente il reale, il tempo te lo senti addosso esattamente per quello che è. Non senti il peso di quello che è passato. Non avverti la pressione di quello che deve ancora venire.

Che non significa che non si viva la nostalgia e l'attesa. Ci sono entrambe. Ma, diciamo, non sono le coordinate decisive.

É piú decisivo l'ora.
É molto piú...pieno, ecco, sí, pieno.

Sushi time

Ieri sera Andrès, un mio collega di matematica, colombiano, è venuto a cena a casa nostra e ci ha insegnato  a preparare il sushi. (di seguito il reportage fotografico)

Qui è pieno pieno di ristoranti sushi e wok (si scrive così?...bhà.).

Comunque.
Preparare il sushi è divertente ma ci si mette un sacchissimo di tempo.
Ma un sacchissimo proprio.

Dopo, invece, a mangiarlo, ci si mette pochissimo.
Ed è molto buono, io non pensavo.


Sushi time II

Sushi time I

Looking for Belalcazar

Questa é Benny che prova a rintracciare sulla mappa della città, il nostro quartiere (barrio), che ha un nome bellissimo: si chiama Belalcazar.

sabato 15 settembre 2012

gaudete!

No, niente.
So che eravate tutti quanti in ansia per il pacco di libri che doveva arrivarmi oggi...

e...
...dunque...
...come dirvelo...

ebbene...sì.
CE
L'ABBIAMO
FATTAAAA!!!

E' arrivato, sano e salvo e con dentro tutti quanti i miei adorati libri (no, ovvio, non tutti quelli che posseggo, solo quelli -selezionatissimi e rigorosamente ad uso didattico - senza i quali mi sentivo persa...) e un paio di capi di abbigliamento (qui fa un freddo cane!) e i regalini (piccoli, ma altamente significativi) della mia family...

Insomma, per ora l'esaurimento nervoso è scongiurato.
Non speditemi niente, per favore.
Fate prima a prendere un aereo e a portarmelo personalmente, davvero.

Bogotá by night

giovedì 13 settembre 2012

cose che quando ci sono non te ne rendi conto e dopo, invece, son problemi

La mia adorabile famiglia mi ha spedito un pacco.
Mica roba anomala, eh.

Un semplice pacco postale.
Contenente, perlopiù, libri. E qualche misero capo d'abbigliamento.
Cose che non ci stavano in valigia e pesavano troppo e quindi è semplice, no?, ti dici: vabbè, queste cose me le faccio spedire. Che problema c'è?

E infatti.
Non è un problema, no.
E' un cataclisma.

Primo inconveniente: in Colombia non esiste la posta.
Non.
Esiste.
La.
Posta.

sì, avete capito bene.
Per dire: nelle case ci son mica le caselle della posta. No. Nemmeno nei palazzi, per dire.
Perchè?
Perchè in Colombia NON ESISTE LA POSTA.

E occhei.
Però ci sono una serie di aziende tipo Dhl e simili che più o meno (e a costi assurdi), fanno più o meno quel servizio lì.

Il punto è che in Colombia le cose semplici o facili non esistono.
Allora vabbè, cerco di sintetizzare:

-i miei vanno in posta (in Italia) e spediscono il pacco.
- passano 20 giorni, niente all'orizzonte.
- finalmente arriva una lettera all'indirizzo in cui sarebbe dovuto arrivare il pacco.
- la lettera dice: devi pagare 18.000 pesos (circa 10 euro) e dopo chiami questo numero e dopo prepari questi documenti e noi ti portiamo il pacco a casa.
- occhei, ti dici.
- vai in banca per pagare i 18.000 pesos.
- ma in banca ti dicono che lì non li puoi pagare, devi andare nella tal altra banca.
- allora vai nella tal altra banca.
- solo che i computer al momento non vanno.
- allora tu aspetti, sperando che i computer ricomincino a funzionare.
- finalmente i computer funzionano e tu paghi i 18.000 pesos.
- componi il numero che c'è sulla lettera e una voce registrata ti dice che il numero è inesistente.
- allora cerchi in internet e trovi un altro numero.
- chiami il numero trovato in internet e una signorina gentilissima ti dice che devi chiamare un altro numero.
- allora tu chiami un altro numero.
- finalmente ti risponde la persona giusta e ti accordi sul giorno di consegna a domicilio del pacco in questione.
- dopodichè preghi ardentemente che quel giorno vada tutto liscio.

il giorno in questione è questo sabato.
se va tutto bene e riesco finalmente a mettere le mani sui miei libri, credo farò due cose:
mi informo sul santo protettore delle spedizioni e accendo un cero, ringraziando, già che ci sono, di avermi preservato dal (quasi inevitabile) esaurimento nervoso che una trafila di questo tipo avrebbe potuto produrre nella sottoscritta; dopodichè, con le energie rimaste vi racconto di quella volta, poche settimane fa, in cui ho dovuto fare il visto per venire qui a lavorare.

[consiglio: se a qualcuno di voi (25 lettori eccetera eccetera) venisse mai l'idea di spedirmi qualcosa, il mio spassionato consiglio è: o mi procurate dello xanax oppure, per favore, cominciate da subito ad addestrare piccioni viaggiatori, non vedo altre possibilità, al momento]


Per esempio

mercoledì 12 settembre 2012

de agenda scolastica (spunti di riflessione)

Da queste parti, per i miei studenti, la scuola funziona così:
 7 ore al giorno di lezione, dal lunedì al venerdì.
suddivise in questo modo:
- dalle sette e dieci alle dieci, le prime tre ore
- 15 minuti di "intervallo"
- dalle 10. 15 alle 11.45 la cosiddetta "ora larga", che in realtà è una lezione che dura un'ora e mezza.
- poi altre due ore di lezione "normali"
- un'ora di pausa pranzo
- ultima ora di lezione dalle 14.20 alle 15. 30 del pomeriggio.

Questo significa almeno due cose:
primo: che a mezzogiorno i miei studenti sono a scuola da ormai già 5 ore, ma ne hanno davanti altre 3 e mezza, il che significa che non ne possono già più e, per quanto disciplinati e volenterosi possano essere, le ore attorno al pranzo, e quella subito dopo, sono letteralmente massacranti (per loro, certo...e anche per chi deve fare lezione).

secondo: che i pobrecitos escono da scuola alle tre e mezza passate, il che vuol dire che non sono a casa prima delle quattro- quattro e mezza, il che vuol dire che non iniziano a studiare prima delle cinque, il che vuol dire che hanno pochissimo tempo per studiare, anche perchè si presuppone che facciano anche altro (giocano a calcio, ballano la salsa e via dicendo) e soprattutto qui la giornata, come massimo alle dieci e mezza termina, anche perchè la mattina eccetera eccetera, ho già detto, a tal proposito, e inoltre tenendo conto che per il giorno dopo dovrebbero prepararsi per sette materie...insomma, fate un po' i conti anche voi e poi ditemi.

Motivo per il quale a me sembra che questa organizzazione non è che sia proprio d'aiuto agli alunni in questione...
(oltre a non esserlo per chi entra in classe).

Quasi tutte le scuole, qui, funzionano così, mica solo la mia, eh.

Bhà.
Non chiedetemi spiegazioni, a me non ne hanno date, per ora.


Tra l'oleandro e il baobab

martedì 11 settembre 2012

Oggi mi é arrivata la notizia di quella giovanissima studentessa di trieste che si é tolta la vita, a soli dodici anni.

Ha lasciato un biglietto con scritto: odio la scuola, odio la mia famiglia.

Stasera, uscendo da scuola tardissimo, passavo in corridoio e guardavo le classi vuote, coi banchi e le sedie e via dicendo.

Pensavo che io i miei studenti li aspetto, tutte le mattine.
Che se non ci fossero mi mancherebbero: avrei un sacco di possibilità in meno di vedere ogni giorno cose incredibili e vere e di una bellezza disarmante e di un fascino irresistibile.

Pensavo che io quella ragazzina di Trieste non la conoscevo, peró mi manca. Pensavo che se solo lei l'avesse saputo, che qualcuno l'aspettava, forse non avrebbe odiato cosí profondamente la scuola e la sua vita.

Ho pensato che aspettare qualcuno é come fargli una promessa.
Che va mantenuta.

Ogni mattina qualcuno mi aspetta (e questo é un dono grandissimo)

lunedì 10 settembre 2012

una disponibilità a qualcosa di possibile.

Oggi un mio studente di terza media ha scritto, nel primo tema dell'anno, una cosa che mi ha lasciata secca.

Daniel (si chiama), che i primi giorni di scuola aveva tutta questa espressione scura in viso e si teneva i capelli lunghi fin davanti agli occhi e guardava sempre da sotto in su, un po' mascherandosi, un po' riparandosi, come impaurito o infastidito, non saprei dire.

Nel tema scrive, più o meno, così: ho iniziato l'anno pensando che non ce l'avrei mai fatta e che non avevo voglia, soprattutto. E quindi non ce l'avrei mai fatta. Punto.
Poi il professore di educazione fisica, durante la prima lezione con la nostra classe dice una cosa. Dice: "tutto quello che voi siete disposti a fare è possibile(e scrive queste due parole passandoci sopra la penna due volte, non una, due, così che le parole risultino in grassetto, se così si può dire) e continua: da quando lui ha usato queste due parole io ho cominciato a pensare che l'anno che stava iniziando poteva essere qualcosa di diverso e nuovo rispetto a quello che io pensavo e credevo di sapere. E' stato come svegliarmi.(anche questa parola la scrive due volte, in grassetto).

Ecco.
Io dico che di questo ho bisogno, sempre, come Daniel.
Di iniziare la giornata con negli occhi la disponibilità a qualcosa di possibile.
Perchè è la cosa che cambia tutto, sempre.

[comunque io faccio il lavoro più bello del mondo, sapiscìtelo]

Per sentirmi un po' piú a casa...

domenica 9 settembre 2012

Delle sigarette comprate al paio.

Comunque io oggi volevo comprare delle sigarette.

Siccome agli angoli delle strade ci sono questi baracchini che vendono, tipo, caramelle, patatine, altre cose cosí e sigarette, mi sono fermata e ho chiesto, al signore col cappellino rosso e le rughe sulla faccia, seduto sullo sgabellino di legno accanto al baracchino, un pacchetto di lucky strike...
Lui mi ha chiesto quante.
Io ho detto due.

Ho scoperto che io intendevo pacchetti e lui, invece, si riferiva al numero di sigarette.

Lo giuro.

Ora. Non chiedetemi perchè una persona normale dovrebbe comprare una, due o tre sigarette alla volta...
Non ne ho idea.

Comunque ne ho prese cinque.
Cosí, giusto per provare.

E dopo non sapevo dove metterle, ovviamente.

Come di cartapesta

sabato 8 settembre 2012

Perchè qui, i gradi, non son mica centigradi...

Io pensavo di essermi dimenticata a casa la mia insonnia.
Anzi.
Ero sicurissima di averla messa in uno degli scatoloni dei libri.
Uno di quelli messi in cantina a casa dei miei.

Questo significa una sola cosa: l'insonnia sa volare.
E non ci mette più di una quindicina di giorni a percorrere Italia-Colombia.

[sgrunt]

l'ingresso di casa mia

giovedì 6 settembre 2012

Nelle scuole, qui, portano la divisa.
Come nei telefilm americani (cfr Una mamma per amica e via discorrendo).
Nella foto qui sotto si nota, credo.

Quella della mia scuola è blu e verde. I ragazzi sono belli, in divisa, eleganti.
Uno dei compiti dei professori, la mattina, è controllare che la divisa sia completa, in ordine, a posto (tipo: niente scarpe da tennis, David; la camicia dentro nei pantaloni, Santiago, grazie; Luz Angelica, domani ricordati di mettere anche la giacca, eccetera)

A me questa cosa fa un po' ridere e mi sembra strana, ma va bene, mi adeguo.

I professori non hanno la divisa ma sopra i vestiti devono mettere la bata, che è sostanzialmente un camice bianco, lungo, un po' come quello dei dottori.

E' una cosa che a me dà un po' ai nervi.
Ma va bene, occhei, obbedisco.
(d'altronde non è che abbia molta scelta)

E nessuno si azzardi a fare del sarcasmo gratuito, grazie, ora.

Il cortile della mia scuola, la mattina, prestissimo (h. 6.40)

mercoledì 5 settembre 2012

i-pensiero

Mi mancano tante cose, ma tante tante, che ho lasciato in Italia.
Le persone, innanzitutto, ovviamente.
O meglio: la quotidianità di certe facce. O anche la modalità di molti rapporti che con la distanza fisica, inevitabilmente, cambia.

La mancanza, la nostalgia, è una cosa potentissima.
E può essere pericolosa. O per lo meno ambigua.

Può indurti a credere che quel che ti manca è più importante di quel che c'è.

Invece.
Invece in questi giorni sto scoprendo che quello che mi manca c'è.
E quel che c'è è così imprescindibile e grande che tiene con sè anche tutto quel che mi manca.

Supercar!

Capita spessissimo di vedere macchine cosí. Roba che ti sembra di essere in una puntata di Hazzard.

martedì 4 settembre 2012

elementi antropologici

Qui le donne vanno matte per le unghie.
Ma una cosa da fuori di testa proprio, eh.

Oggi la preside delle medie ha dovuto dare un avviso chiedendo alle alunne, per favore, di non usare colori troppo vistosi (sulle unghie), a scuola.
Alle medie, ripeto.
Avviso generale, sì.
(Ne ho adocchiata una di prima media che sulle unghie aveva la bandiera colombiana con tanto di brillantini vaganti)

No, davvero, qui per le unghie van fuori di testa.
Non lo so perchè.
Che poi non è che in giro la gente si vesta bene o che. Anzi.

Ma le colombiane per trucco, capelli e unghie vanno proprio matte.
Del tipo che una delle prime cose che mi ha detto la mia Preside di qui è stata: ah, quando poi ci saranno gli incontri con i genitori mi raccomando: vestita bene e le unghie a posto.

Non so se mi spiego.

lunedì 3 settembre 2012

il cielo, ad esempio

tutto nuovo, sempre

Oggi abbiamo preso un taxi per tornare a casa da scuola e il taxista era ubriaco.
Ma fradicio, eh.
Roba che oscillava a destra e sinistra come un birillo proprio.

Per cui dopo una decina di metri gli abbiamo chiesto di accostare e siamo scesi.

Dicono sia abbastanza frequente, 'sta cosa, da queste parti.

Io una delle cose di cui ho paura è di abituarmi.
Non voglio abituarmi a vedere i gamin che frugano nella spazzatura, le notizie al telegiornale dell'ennesimo omicidio alla periferia della città, i taxisti ubriachi, l'alunno che ti racconta che non ha più il papà perchè è stato assassinato quando lui aveva 8 anni, gli studenti nelle università che manifestano una volta alla settimana con la polizia in tenuta antisommossa che correda le strade (e spiegarvi la situazione è complicato, che ancora io non la capisco troppo bene, mi voglio documentare un po').

Così come non voglio abituarmi alla bellezza che vedo, ad esempio: al cielo che c'è qui.
Perchè il cielo è a portata di mano, qui.
Le nuvole volano bassissime che hai sempre l'impressione che basti alzarsi in punta di piedi e allungare un braccio per sfiorarle davvero.
Tra me e il cielo c'è solo luce che si diffonde in orizzontale e si appiccica sulla superficie delle cose, delle case, delle facce piene di rughe e immondizia dei gamin, che frugano nella spazzatura e io allora cambio marciapiede, perchè son pericolosi, hanno i coltelli e a volte rapinano senza mezzi termini.

Le strade sono piene di contraddizioni.
La violenza più atroce cresce a fianco della bellezza come gramigna in un campo di grano.
Io spesso non mi posso fermare a guardare entrambe (è pericoloso anche fermarsi). Allora guardo tutto di fretta e i miei occhi arraffano luci e colori e le parole dette di fretta dai bambini che giocano a pallone in una via trasversale.
Il cuore, tutte le volte che guardo in alto, lo sento sollevarsi come un palloncino riempito con l'elio.
Sento i sorrisi farmi solletico nella gola, ma quando si cammina non bisogna sorridere troppo, non è prudente.
I sorrisi sono un'arma potentissima, mettono molto più paura dei coltelli, mi pare d'aver capito. Almeno da queste parti.
Allora me li tengo in tasca e li sento tintinnare come monetine.
Quando entro in casa li metto in un barattolo di vetro. Di notte si illumina e mi fa compagnia.

Io non voglio abituarmi a tutto questo, mai.
Non c'è cosa peggiore dell'abitudine, credo.
Io desidero tutto nuovo, sempre.


La civiltà, dicono (o dei centri commerciali)