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mercoledì 10 luglio 2013

questo abbraccio vada al mondo intero (semicit.) / Addio, ciaociao, auf wiedersehen, goodby (cit.)


allora, amici, cari 25 lettori eccetera.
questo è l'ultimo post.

domani prendo un aereo e venerdì sera sarò nuovamente in Italia.

qualche settimana fa  ho comprato il biglietto.
sola andata, diceva.

che poi in realtà è un ritorno.
ma per la compagnia aerea che mi ha fatto il biglietto è di sola andata.
questa cosa, ho pensato, è buffa. e anche molto indicativa di come certe andate siano in realtà dei ritorni e di come ritornare, a volte, possa invece significare andare.
insomma, di quanto sia relativa, questa cosa delle andate e dei ritorni. di come sia soggettiva, di come dipenda, in fondo, da noi, da tanti fattori.

di come, per la compagni aerea, il mio viaggio sia solo un'andata.
e forse, ho pensato, ha ragione lei.

perchè domani, undici luglio, io prenderò un aereo, da bogotà.
e il giorno dopo, la serea, dodicidiluglioduemilaetredici sarò di nuovo in Italia.
e sarò lì per restare, non per tornare qua.
(anche se mai dire mai, insomma).

e, penso, ha ragione la compagnia aerea, in fondo.
perché dopo un anno così, credo, non è possibile, in qualche modo, tornare.
si va.

si va a vedere come si è cambiati, si va a vedere un nuovo nuovo mondo che magari per altri sarà rimasto uguale o poco differente, può anche essere.
ma io (tu), che parto, dopo un anno di chilometri e ore e di tante distanze diverse e di cieli e incontri e persone che mi hanno attraversato i pensieri e gli occhi e il sangue e la pelle, io, dopo un anno così, mica torno.

io parto.
e, in fondo, non lo so mica bene quello che troverò, alla fine.

chè gli occhi, ormai, mi sono cambiati, hanno dentro delle cose nuove, che prima non conoscevo e che mi hanno cambiato lo sguardo e allargato il cuore e ora, credo, ci stanno più cose.

quindi, ecco, volevo dirvi, a voi 25 lettori, che mi avete fatto compagnia da lontano anche solo coi vostri occhi attenti e fedeli alle parole, anche quelle a volte piccole, che ho potuto regalarvi un po' da qui, per come ho potuto, insomma: grazie.

dato che questo luogo era nato, semplicemente, per raccontare di questo viaggio lungo un anno, non ha più molto senso che io continui a scriverci, da domani.
Avevo un sacco di altre cose da raccontarvi, ma vorrà dire che lo farò a voce.
E questo posto, dunque, continuerà a fluttuare nell'immensità del web e sarà un po' come quando si mettevano le lettere ricevute in una scatola delle scarpe in cima a qualche armadio, per poi riaprirla svariati anni dopo e lasciarsi nuovamente travolgere dalla commozione per le cose vere.

vi regalo, qui sotto, un'ultima immagine.

siamo io e Irene, a Monserrate.
l'amicizia con lei è stata una delle tante cose grandi che mi sono accadute qui.
l'abbraccio della foto è della stessa natura di quello, spero, di poter dare a ciascuno di voi, al più presto, al mio rientro.

il desiderio più grande che ho, in questo momento, è che questo abbraccio vada al mondo intero (semicit.).









piesse: giusto per la cronaca.
arrivo venerdì sera, ma domenica la mia famiglia mi rapisce e mi porta una settimana al mare, in Francia...quindi, a parte la giornata di sabato, non sarò tecnologicamente raggiungibile fino tipo al 21 o 22 di luglio...così, metti che qualcuno avesse voluto invitarmi a cena, dovrà aspettare fino al 22.

fine delle trasmissioni, cià:

venerdì 5 luglio 2013

L'arte di ripiegare le piantine

Ormai è ufficiale a tutti i livelli, molti dei miei 25 lettori (cit.) lo sanno, agli altri lo comunico ora, quindi lo posso scrivere: tra pochi giorni torno in Italia.
E l'anno prossimo resterò in Italia, invece che tornare qui un altro anno come da progetto originale.

I motivi di questa scelta alcuni di voi li sanno già, perché glieli ho detti io.
Altri no, eventualmente me li chiederanno quando sarò a casa e io, nel caso, mi avvarrò della facoltà di non rispondere.

Era per dire che ho cominciato a fare le valigie, impacchettare le cose, buttare il superfluo, tentare eroicamente di farci stare tutto in due valigie di massimo 23 kg eccetera.

Arrivata qui alla fine di agosto dell'anno scorso ho comprato una piantina stradale della città.
Gigantesca.
Una di quelle piantine che quando le compri sono tutte piegate perfettamente in tipo 37 parti e che quando le apri diventano grandi enormi.
Quella che ho comprato io me la sono appiccicata sulla parete della camera, di fianco al letto, e ogni tanto la studiavo.

Non sono mai stata buona con le misure, ma credo fosse più o meno un metro e mezzo di larghezza per almeno quasi un metro di altezza.

Ieri l'ho staccata dalla parete e volevo ripiegarla per infilarla in valigia e portarmela a casa.

Dramma cosmico, ovviamente.

Non faccio parte, ahimè, di quella esigua schiera di esseri umani in grado di ripiegare una piantina in maniera rapida, efficace, senza sforzo.
Mio padre, ad esempio, lo sa fare.

È uno di quei gesti che mi provocano sempre, quando mi capita di assistervi, un misto di ammirazione, invidia, stupore.

E siccome in questi giorni è così doloroso partire e lasciare tante cose, senza sapere se e quando tornerò a rivederle, allora pensavo che, in fondo, quello che sto vivendo in questi giorni è un po' come tentare di ripiegare una piantina gigante di città.

Si chiama desiderio di ricordare tutto, di non perdere niente, che tutto sia salvato, per sempre.

E mi accorgo di quanto è grande il bisogno che ho di qualcuno che sappia ripiegare la piantina stradale di quest'anno vissuto qui, senza gli strappi e gli errori che farei io, così maldestra.

giovedì 4 luglio 2013

Se fossi una regista, per esempio.

Ieri sera, che era già buio e stavamo andando a cena da Sandra e Luza e passavamo a prendere un dolce, a un certo punto mi sono trovata davanti a questa scena incredibile:

Un ragazzino, che avrà avuto 8 o 10 anni al massimo, in braghe corte e maglietta e un pallone da calcio. C'era il marciapiede di questa strada trafficatissima e tantissime persone che camminavano avanti e indietro e lui si metteva in un punto della strada, col pallone fermo sotto il piede destro, guardava dritto e poi via.
Cominciava a correre con il pallone tra i piedi dribblando tutte le persone che incontrava.
Arrivava alla fine della strada, si voltava, stava fermo tipo un minuto e poi ricominciava, affrontando nuovamente il dribbling estremo tra i passanti.

Una cosa di quelle che avrei voluto fotografare o filmare che, se, metti, facessi la regista, troverei sicuro il modo di metterla, una scena così, nel mio film.

Poi stamattina, che siamo uscite da scuola per andare in banca a sbrigare faccende, a un certo punto c'era questo giovanotto, sotto una casa, che fischiava e guardava in alto. E dopo, da una finestra, si è affacciata una ragazza coi capelli lunghissimi neri e un sorriso grande così. E anche lui ha sorriso, quando lei è apparsa.

Io vorrei fare la regista solo per poter mettere scene come queste nei miei film.

Allora poi ho pensato che questo mondo è proprio bello.
Ci sono cose, in questo mondo, che puoi vedere, che valgono proprio la pena di aprire gli occhi alla mattina.
Punto.

mercoledì 3 luglio 2013

I ❤ shopping?

C'è questo fatto, che ci penso da un po' ed è strano e non so bene come spiegarlo.

Cioè.
Io da quando sono qui praticamente non ho comprato quasi nulla.
Un paio di jeans, perché quelli che mi ero portata dall'Italia li ho distrutti.
Un paio di scarpe da tennis, per lo stesso motivo.
Un maglione e un vestito leggero, perché non ci stavano in valigia quando sono partita.
Un paio di orecchini.

Fine.
In un anno.

Voglio dire: non che io appartenga in maniera drastica al tipo di donna che fa shopping sfrenato e disperatissimo almeno una volta alla settimana.
Voglio dire: non ho mai avuto l'agiatezza economica per permettermelo e comunque, in Italia, mi capitava più spesso di spendere vagonate di soldi in maniera compulsiva più per i libri, che per vestiti o simili.

Però, insomma, la mia dose di shopping annuale e corse ai saldi me la sono sempre beccata anche io, con gusto e piacere, insomma.

Allora mi sono messa lì e ho provato a capirci qualcosa e i dati che ho raccolto sono i seguenti:

1. In Colombia la moda non esiste. Cioè: se cammini per strada e ti guardi in giro la gente è vestita veramente a caso e nei modi più assurdi e diversificati. Sia da un punto di vista climatico (trovi gente in infradito e canottiera accanto a persone col cappotto, per dire...e nello stesso giorno), sia da un punto di vista di "stile": si va dal gamin in stracci, alla donna in tacchi e tailleur, al ragazzino in uniforme scolastico, alla signora di mezza età in tuta...però, insomma, non è come a Milano, che ti basta salire in metropolitana, dare un colpo d'occhio per affermare, chessó, tipo: ah, quest'anno va il verde smeraldo.

2. Non esistono negozi. Cioè, tipo: se cammini per strada, in qualunque zona della città, è molto raro trovare negozi di abbigliamento. Ce ne sono pochissimi. O meglio, ci sono. Ma sono stipati tutti nei centri commerciali (numerosi). Però nelle vie e strade "normali", quelle per cui si cammina abitualmente, non ce ne sono proprio. Per cui, boh, non so, non ti viene in mente proprio.

3. Ai colombiani non gliene frega proprio niente di come sei vestito. O meglio. In generale hanno un gusto...diciamo...leggermente pacchiano, ecco. Cose leopardate, righe miste a colori improbabili, etc. Di per loro in realtà sono attentissimi all'aspetto fisico, su certe cose, per cui ad esempio, la manicure è un Must, anche per gli uomini, ad esempio. Ci sono parrucchieri ad ogni angolo di strada, le donne hanno una vera e propria ossessione per i tacchi 12....ma sull'abbigliamento in quanto tale...bhè, non gli interessa. O per lo meno, non ne parlano e non te lo fanno notare.

Poi, non so.

È che proprio non ne ho sentito il bisogno, chenneso.
Tutta una serie di cose per cui in Italia impazzivo, qui, hanno perso d'interesse.
Come se davvero, alla fine, ti ritrovi faccia a faccia con le tue esigenze vere.

Un caffè con un amico, o una mail che ti arriva dall'Italia, dopo averla aspettata a lungo, una telefonata via Skype, un invito a cena, una coinquilina che ti prepara il caffè la mattina...

Cose così, insomma, che da Zara non vendono.

martedì 2 luglio 2013

Cose importanti

Gli hamburger sono una delle cose importanti della vita, a mio parere.
Ci sono intere, disastrose giornate che vengono risollevate semplicemente da un buon hamburger.

Io non avevo mai mangiato un vero hamburger, prima di venire in Colombia.

Chè, io credo, gli hamburger più buoni del mondo sono quelli del Corral:

Se vi capiterà di passare da queste parti, per favore, tenetene conto.

Come al solito, anche in questo il caso, Il Maestro si è pronunciato sull'argomento, QUI.

sabato 22 giugno 2013

L'altra cosa che succede quando fai la commissaria in un esame è che ti commuovi ogni cinque minuti.

Una cosa terrificante proprio.

chè il punto è che, quando prendi coscienza che quellilì, ciascuno di quellilì è tuo (come raccontavo qualche giorno fa), tuo e basta, quando ne prendi coscienza è finita.
cioè, proprio non hai più nessun controllo su nessuna parte delle tue emozioni.

per cui, ad esempio, quando ieri Juan Sebastian ha finito di illustrare la sua tesina e, alla fine del power point, c'era una scritta in cui ringraziava tutti i suoi professori ma, in maniera particolare "la prof. benedetta e la prof. ilaria che mi hanno sempre sostenuto e aiutato"...vabbè, chevvidevodire, non ce la si fa, a non commuoversi.

ma anche per molto meno, eh.
basta vederne anche solo uno di loro che risponde in maniera corretta a una domanda.
o in difficoltà.
o timidi e impacciati.
o al contrario, sicuri e spavaldi.

insomma, in qualsiasi condizione si trovino, quellilì, che ormai sono tuoi e basta, lo sono per sempre, e tu lo sai...questa cosa ti scartavetra il cuore anche al solo guardarli.
è una roba impressionante e contro la quale non puoi fare proprio niente, se non arrenderti all'evidenza di quale spettacolo sia poter assistere al diventare grandi, in modi tanto diversi, di ciascuno di loro.

ora vado a comprare dei cleenex, scusate.

lunedì 17 giugno 2013

notte prima degli esami (cit.)

Se di lavoro fai la professoressa e alla fine dell'anno ti tocca fare la commissaria agli esami, questa è proprio una cosa bellissima.

cioè. è difficile, stancante, stressante e tutto il resto, certo, chi dice di no.

però è proprio bello.
innanzitutto perché ti ribalta tutto.

cioè, voglio dire: quei ragazzi lì, quelli contro i quali fino al giorno prima hai inveito, sbraitato, scagliato gomme. quelli che hai massacrato di insulti, arrabbiature, voti infami, note.
quelli che ti hanno dato del filo da torcere, che ti hanno deluso, stancato, stressato...
quellilì, insomma, che fino al giorno prima erano solo i tuoi alunni...
dal giorno che cominciano l'esame diventano tuoi e basta.

sono tuoi in un modo in cui lo erano anche prima, ma l'esame lo fa diventare evidente in un modo imbarazzante.

sono tuoi anche quelli che ti stanno antipatici, quelli che non hanno mai studiato, quelli che "potrebbero dare di più ma non si applicano", quelli che non stavano mai zitti, quelli che cercavano di fregarti, che non facevano i compiti, che copiavano nelle verifiche.

sono tuoi e basta, punto.

e tu ti ritrovi a fare il tifo per loro, per ciascuno.
ti ritrovi a girare tra i banchi alla ricerca di errori da correggere di nascosto dal presidente di commissione, di suggerimenti da dare, di sorrisi incoraggianti da sfoderare...

e quando si corregge ti ritrovi a valorizzare ogni virgola, ogni parola che anche solo minimamente abbia dentro un respiro buono, e tiri fuori dalla memoria gesti, episodi, fatti, anche minuscoli, a testimonianza del bene che sono, che c'è in loro, anche nel "peggiore" di loro, anche di quello che ti ha fatto penare fino al secondo prima. anzi, se è possibile, quellilì, i peggiori, sono ancora più tuoi degli altri.

insomma, è una cosa bella, questa, perchè è come se, finalmente, dopo tutto il tempo in cui li hai accompagnati, diventasse evidente lo scopo: non li hai accompagnati perché fossero perfetti, nemmeno perché fossero migliori e, tutto sommato, nemmeno (solo) perchè imparassero delle cose.

li hai accompagnati perchè ci sono, e sono stati affidati a te.
e questa è l'unica ragione sufficiente per volergli bene e sostenerli fino all'ultimo, al di là dei meriti.

e basta.


martedì 21 maggio 2013

Guaraní

Ieri un'amica che è tornata da un viaggio in Paraguay per lavoro, ci raccontava che in Paraguay si parla il guaraní, che è tipo la lingua indigena di quel posto lí.

E che in guaraní non esistono due cose:
Non esiste nessuna parola per dire "no".
E non esiste nessun modo per coniugare i verbi al futuro.

Cioè, ho pensato, quindi è una lingua di gente che:
A. Vive sempre nel presente.
B. Vive con una continua disponibilità a dire sí.

Non so, questa cosa mi impressiona un sacco, non so a voi.

sabato 18 maggio 2013

bollettino medico 2

primo giorno senza febbre.
bene.
sono guarita.

essere malati lontano da casa è come essere malati a casa.
però, in fondo in fondo, ci si sente un po' più soli, anche se non è vero.

e delle medicine coi nomi diversi da quelli a cui sei abituata ti fidi di meno, che cosa strana, questa.

per cui sono contenta che almeno la tachipirina me l'ero portata dall'Italia e ce l'ho a portata di mano, che di lei mi posso fidare.


mercoledì 15 maggio 2013

oggi è il "dìa de los profesores"

cioè, il giorno dei professori.
mi chiedo com'è che sono a scuola, allora, invece che essere a casa nel mio letto a riposare.

detto questo.
un professore si accorge di essere alla frutta quando:
arriva la segretaria e ti dice che devi fare una supplenza e tu, al posto di sacramentare, esulti, perchè così hai un'ora in più per finire il programma.

(veroveramente)

venerdì 10 maggio 2013

Volevo dire che domattina noi siamo invitate a un matrimonio.

e occhei, bello.
poi è sabato, va bene, tutto normale.

il problema è che la tizia in questione si sposa alle 8.30.
del mattino.

già.
un matrimonio-colazione, praticamente.

non chiedetemi perchè, ricordate: siamo in Colombia, la terra del non-sense.

l'idea che domattina devo svegliarmi alle sette per andare a un matrimonio mi sta uccidendo.

compatitemi, per favore.

giovedì 2 maggio 2013

Binari linguistici

In questi giorni mi rendevo conto di una cosa.

Parlare due lingue è una faccenda interessantissima (non riesco nemmeno a immaginare chi ne parla tre o quattro o più...che fortuna...).

Nel senso che mi sono proprio accorta che è una di quelle cose che, fisicamente, quasi, ti spalanca il cervello.

Quando parlo in spagnolo mi accorgo che è come se nella mia testa si aprisse un altro mondo.
La sensazione, a volte, è quella di avere una specie di ferrovia nel cervello, con due grandissimi binari.
A volte mi capita di pensare in spagnolo e poi di parlare in italiano o viceversa.
Continuamente sento i meccanismi del mio cervello fare click, come attivassero una leva di scambio gigantesca, per passare da una lingua all'altra.

E non è solo questo, è proprio che mi accorgo che cambio il modo di percepire alcune realtà.
Il fatto di chiamarle diversamente o la struttura sintattica che serve a dire una cosa e magari è diversa dalla struttura che uso normalmente in italiano, fa proprio in modo che a quella cosa tu pensi in maniera diversa.
Sostanzialmente diversa.

Non lo so se rendo l'idea.
Magari tra un altro po' di tempo riesco a spiegarvelo meglio.

Poi vabbè, l'inconveniente invece è che a volte quando parlo mi vengono fuori parole che non sono nè spagnole nè italiane, ibridi lessicali che fanno ridere e basta.

Tutto ha un prezzo.

domenica 28 aprile 2013

para que?

In spagnolo ci sono queste due congiunzioni porqué e para que.
Di per sè corrispondono ai nostri: perchè e affinché. Anche se in realtà non è proprio così.

Cioè porquè indica una causa. Para que indica lo scopo, il "motivo finale" il vantaggio a cui si arriva facendo qualcosa.

Ora, ieri sera passando davanti al supermercato per andare a comprare la pizza e incontrando, come al solito, lungo la strada, una serie infinita di poveri e gamin ai bordi delle strade o la signora fuori dal supermercato, vestita di stracci, che vendeva fiori e borse per la spazzatura, così come davanti a tante cose che mi succedono o a tante situazioni piene di dolore che mi capita, più o meno da vicino, di incontrare, ho cominciato a intuire una cosa:

che spesso ci facciamo la domanda sbagliata.

Ci chiediamo porquè.
Cercando una risposta che difficilmente sarà possibile trovare e che non fa altro che sottolineare l'ingiustizia della situazione che ci troviamo a guardare, a volte tanto evidente e schiacciante.

mentre invece dovremmo chiederci: para que?
e cioè: dove porterà, questo dolore che vedo, questa ingiustizia a cui sono di fronte, questa fatica, questo problema?
dove mi porterà? a cosa mi servirà? cosa ci guadagnerò?

perché questa domanda, invece, apre lo sguardo e fa respirare.
e sempre, credo, ha una risposta.
anche quando ci vuole del tempo per trovarla.


martedì 23 aprile 2013

Una delle cose più grandi e incredibili che si imparano facendo il lavoro che faccio io, è che le cose sono per me, ma non sono mie.

Tutte, le cose.

Coi ragazzi è di un'evidenza clamorosa.
Che loro sono per me, mi sono in qualche modo regalati, la loro curiosità, il loro diventare grandi, scoprire se stessi e le cose, rispondere alle provocazioni, farsi domande, provare a dare risposte...tutto questo è per me, è un regalo, uno spettacolo incredibile a cui quotidianamente mi è data la grazia di poter assistere.

Ma non è mio.
Non posso decidere quasi niente, di loro, del rapporto con loro, di ciò che a loro accade, nè tanto meno la risposta che daranno alle proposte che gli faccio.

Sono per me, ma non sono miei.

Sembra una cosa facilissima, quasi banale e invece a me ci sono voluti anni solo per arrivare a pensare a questo concetto con una certa chiarezza, figurarsi quanto mi manca ancora per diventarne realmente consapevole.

Però, ecco, alla fin fine è una cosa liberante, questa. Che le cose, tutte le cose, siano per me ma non siano mie.
Liberante e grande.

lunedì 22 aprile 2013

Hoy me quedo contigo.

La mattina, quando arrivamo a scuola (all'alba, vi pregherei di ricordare), quando arrivano tutti i ragazzi e bambini dalle rute, noi siam lì ad aspettare che suoni la campana e a controllare che, nel frattempo, non si uccidano fra loro, sostanzialmente...

Stamattina ero lì che li osservavo e Pablo, 4 o 5 anni e, credo 70 centimetri di altezza o poco più, mi si avvicina, mi abbraccia e mi dice, sorridente: "hola! Hoy me quedo contigo, sì?!" Che tradotto significa: ciao, io oggi voglio stare con te, va bene?

Volevo dirvi che mi sono commossa.
E che sarebbe così grande la vita e tanto più semplice, se fossimo più capaci, come un bambino di quattro anni, làddove riconosciamo la bellezza, una simpatia, qualcosa di grande per noi, di dire: io oggi voglio stare con te.
E farlo, davvero. E non rinunciarvi.

Come si riempirebbe, la vita, di cose grandi e meravigliose.

giovedì 11 aprile 2013

Where the streets have no name (cit.)


Le strade, a Bogotà come in tutto il continente americano, credo, non hanno nome.
Hanno numeri.
La settima, la novena, la 116 eccetera.
In realtà è un sistema piuttosto intelligente.
La città è divisa in due: la parte verso sud e la parte verso nord.
Dalla strada centrale le strade sono numerate progressivamente, in maniera parallela: c'è la prima, la seconda, la terza, la quarta e così via "hacia el northe" o "hacia el sur" (verso nord o verso sud).
Le strade grandi si chiamano "carreras", che più o meno corrisponde alla nostra "via", quelle più piccole, che incrociano le carreras, sono le "calles" che più o meno equivalgono al nostro termine "strada", o forse è il contrario, non ho ben capito.
Per cui quando tu devi andare in un posto o devi dare un indirizzo, l'indicazione è sempre l'intersezione tra due strade. Ad esempio: io abito nella "carrera 27 con 45, hacia el northe".

Questa cosa ha un grande vantaggio: quello di (più o meno, perché in realtà poi ovviamente il sistema è un po' più complesso di così) sapere sempre dove ti trovi e, soprattutto, se sei vicino o lontano rispetto a un altro luogo.
Cioè, se un amico mi dice: vienimi a trovare, abito nella "45 con 23", io so che non è molto lontano da casa mia. Mentre se dovesse dirmi: abito dalle parti della 116, so che minimo minimo mi aspetta una mezz'ora o anche più, in taxi...
È comodo, insomma.
È un sistema intelligente, ecco.

A volte penso che sarebbe tanto comodo se ci fosse un sistema simile per capire quanto lontano o vicino sei rispetto alle persone.

Non so, ad esempio, se stamattina William, al posto di farmi dannare tutta l'ora, avesse potuto dirmi: "prof, stamattina se lei si trova nella settima, guardi, io sto almeno alla 75", io subito avrei potuto capire che avevo tanta tanta strada, da fare, per arrivare là dov'era il suo cuore e andare a trovarlo.
Invece mi è toccato sbraitare per un'ora e mezza.
E alla fine, secondo me, non sono arrivata nemmeno alla 30.
Mi sa che William è ancora là che mi aspetta.
Domani prendo un taxi e lo raggiungo, se riesco.

lunedì 8 aprile 2013

Taxi!

Il taxi è uno dei mezzi di trasporto più frequenti, a Bogotà.
Costa poco, meno che un biglietto dell'autobus, se lo prendi in almeno due o tre persone.
È comodo.

Bisogna stare attenti, ma è comodo, insomma.
Noi lo prendiamo spesso, per tornare da scuola, ad esempio, tutti i giorni.

Per chiamare un taxi ti metti al bordo della strada e quando ne vedi passare uno libero alzi il braccio, per chiamarlo e quello si ferma.

Se è una giornata bella, col sole, e sei in una zona ricca della città...quasi, per un momento, se guardi in alto, i palazzi e il cielo e poi alzi il braccio e chiami un taxi...puoi sentirti quasi come Sarah Jessica Parker in sex and the city...dura pochi istanti, ma sono momenti gloriosi.

giovedì 4 aprile 2013

Promemoria numero 2


Ovvero dell'essere a casa, sempre.

La verità vera è che io per anni non mi sono sentita a casa mai, in nessun luogo, in nessuna casa.
Nemmeno quando ho avuto un posto mio, proprio mio, che ho potuto riempire all'inverosimile con oggetti, colori, gadget tra i più inutili che la storia dei gadget inutili può testimoniare e che in qualche modo gridassero a me stessa e al mondo che io c'ero, ero unica, avevo un posto.

Mi ha impressionato tornare qui, dopo una settimana trascorsa in Italia, a quasi otto mesi dalla mia partenza, scendere dall'aereo dopo il numero di ore devastanti e, fatti salvi i primi minuti di spaesamento e disagio, scoprirmi contenta di essere qui.

Che verrebbe da dire: contenta di essere in Colombia??? Contenta di essere di nuovo tanto lontana da casa, dagli amici, dagli affetti (e, in un certo senso, anche dalla civiltà...)???
Come puó essere che sei contenta???
(Perché poi, il punto, è che ero proprio contenta, non rassegnata, non abituata, non "inserita"....contenta, insomma).

Allora vi dico due cose.
Uno: contenta non significa senza dolore, o senza nostalgia o senza preoccupazioni o senza fatica o senza mancanza o senza.
Insomma, la parola contenta non ha dei senza, dentro.
Due: contenta non significa allegra o spensierata o stupidamente sorridente senza motivi.

Contenta significa: piena, densa, carica di consapevolezza, cosciente del fatto che ovunque nel mondo, in qualsiasi condizione io mio trovi, tutto è per me e non c'è circostanza o situazione, nemmeno quelle che contengono anche il dolore o la fatica o la preoccupazione, che non sia per me promessa di una scoperta di un bene grande e irrinunciabile.

Insomma.
Io sono contenta.
E questo mi fa sentire a casa, sempre.

giovedì 14 marzo 2013

Permanenza ottica

Mi hanno spiegato questo fenomeno fisico che si chiama "permanenza ottica", che sostanzialmente è quell'effetto per cui, quando guardi il sole, per un po' di tempo, dopo, continui a vedere il circolo rosso anche quando guardi qualcos'altro.

Su questo fenomeno sono anche costruite una serie di effetti ottici o illusioni, insomma.

La cosa interessante è che questo effetto dice esattamente di come siamo fatti, strutturalmente, non solo fisicamente: quando il tuo occhio si imbatte in qualcosa, di reale, la sua immagine permane nel tempo, anche fisicamente, sulla retina.
Questa cosa, anche dal punto di vista esperienzale, quotidiano, è interessantissima: significa che quello che vediamo, la cosa su cui puntiamo lo sguardo, in qualche modo, rimane anche quando sposti gli occhi su qualcos'altro.
Quando vedi, vivi, ti imbatti in qualcosa, quella è un'esperienza di non ritorno: influirà anche su quello che guardi dopo.

Per questo, ho pensato, è tanto importante la bellezza.
Se uno punta lo sguardo su cose belle, dopo, è impossibile non cominciare a tenerne conto sempre.

mercoledì 13 marzo 2013

Icfes

Alla fine della quarta liceo (che corrisponde alla quinta italiana), i ragazzi colombiani, oltre all'esame di maturità italiana (nel caso dei collegi bilingue come il mio), devono sostenere anche l'esame di maturità colombiano, che si chiama Icfes.

L'Icfes è una cosa assurda: è un test che dura otto ore (otto!!!) con domande chiuse a risposta multipla  che spaziano dalla letteratura alla fisica, alla chimica, alla storia alla cultura generale e attualità eccetera.

Una cosa massacrante.

Questi iniziano a prepararsi fin dalla seconda-terza liceo con corsi appositi e simulazioni varie.
Una roba da spararsi.

Il problema è che l'Icfes è importantissimo: alcune università (le migliori), non accettano studenti che abbiano un risultato Icfes sotto una certa soglia.
Per cui da quel risultato dipende la possibilità di entrare in un università più o meno buona.
Inoltre i risultati Icfes sono pubblici e in base ad essi si stila una specie di "classifica" delle scuole colombiane, divise per città.

In pratica: se l'esame Icfes dei tuoi studenti non è granché automaticamente anche la scuola non è granché.

Detto questo.
Fin'ora il collegio in cui lavoro ha ottenuto dei risultati Icfes più che buoni.
Però.
Boh, non so, è che come al solito mi sembra davvero un criterio e un sistema di una parzialità e una piccolezza di giudizio decisamente evidente.

Poi magari mi sbaglio.